Storie di Mascalucia - Febbraio 2, 2022
Capitolo 1 : Antico Orrore
Sono sempre stato interessato alle storie oscure ed un po’ macabre della mia Terra e mi è sempre piaciuto saperne di più , indagare a fondo, scoprire nuovi particolari, formulare delle ipotesi. La macabra storia del Vicario Longo, barbaramente ucciso a Mascalucia agli albori del ventennio fascista, è una storia avvincente, in cui si mischiano […]
Di Giuseppe Reina

Sono sempre stato interessato alle storie oscure ed un po’ macabre della mia Terra e mi è sempre piaciuto saperne di più , indagare a fondo, scoprire nuovi particolari, formulare delle ipotesi.
La macabra storia del Vicario Longo, barbaramente ucciso a Mascalucia agli albori del ventennio fascista, è una storia avvincente, in cui si mischiano orrore puro e interessi economici, sottili sospetti di amori profani e barbarie allo stato puro.
Ho ritrovato, qualche anno fa, un articolo datato 10 gennaio 1928 del “Corriere di Catania” in cui un anonimo cronista (chissà perché non ha firmato il pezzo), ripercorre con dovizia di particolari, l’antefatto della storia, il ritrovamento del cadavere, l’orribile messinscena sulla scena del delitto e tantissimo altro.
Ho avuto subito la sensazione che l’anonimo reporter dell’epoca fosse ottimamente informato, talmente il racconto sia circostanziato, ricco di dettagli e minuzioso nella sua descrizione.
Sono certo che abbia interrogato testimoni e avventori, accorsi sul luogo del delitto ben prima della Polizia Fascista e ciò gli ha permesso di farci rivivere e arrivare fino ai nostri giorni, quest’incredibile storia.
Ho trascritto tutto l’articolo originale con le medesime parole dell’anonimo cronista, apportando solo leggerissime variazioni per rendere più fluente il racconto ed omettendo parti insignificanti e retoriche che non inficiano la narrazione.
Ve lo propongo come documento storico e testimonianza di un’assurda atrocità.
Dal “Corriere di Catania” del 10 gennaio 1928
“Domenica mattina 8 gennaio, come al solito, le campane della Chiesa Madre squillarono a festa chiamando i fedeli alle sacre funzioni. Il tempio si aprì ad accogliere la folla devota. Cominciò la Santa Messa ma, contrariamente alle altre Domeniche, il padre Vicario foraneo non si era presentato, prima della elevazione, a fare la consueta spiegazione del Vangelo della giornata. Un senso d’inquietudine si diffuse tra i fedeli ed appena la messa ebbe fine, il sagrestano Mario Tripolone uscì dal tempio e andò a bussare alla casa del Vicario che sorgeva proprio nella breve piazzetta, divisa dalla Chiesa da un piccolo cortiletto ad imbuto, chiuso da una inferriata. Egli bussò, ma nessuno gli rispose. Allora credendo che il Vicario si sentisse poco bene, corse ad avvertire il nipote che, per tutte le evenienze, aveva una chiave della casa.
Una volta trovato il congiunto, Mario l’informò subito di tutto e con lui tornò verso la casa del Vicario.
Aprirono la porta, ma appena varcarono la soglia ed accesero la luce, un triste spettacolo si offerse ai loro occhi. La stanza d’ingresso era tutta sconvolta, tutta sottosopra come se vi fosse passato un vento di tempesta; i mobili erano sventrati, i cassetti sparsi qua e là, la biancheria ed i libri squinternati erano sparsi per le sedie e per terra, sporchi di olio e di vino versati sul pavimento.
Presso la scrivania alla quale il Vicario soleva sedere a leggere il suo breviario, il muro era macchiato di spruzzi di sangue. Altri spruzzi erano sulla scrivania e sulla lampadina elettrica. Una pozza di sangue era poi presso la porta d’entrata della stanza da letto e sul muro, l’impronta rossa di una mano.
Il sagrestano ed il nipote, presi dall’angoscia, avanzarono e trovarono la seconda stanza anch’essa tutta sconvolta. Ma quando misero piede nella terza stanza, un grido d’orrore si levò dalle loro labbra, alla vista dello spettacolo orrendo e pauroso che si offriva ai loro sguardi esterrefatti.
Il Vicario giaceva sul pavimento in un lago di sangue, il viso irriconoscibile per parecchie ferite e gli occhi ancora sbarrati nel vuoto, nella suprema angoscia del dolore. Il cadavere era orribilmente deformato ed appariva congestionato, giallo e paonazzo con una smorfia d’orrore alla bocca anch’essa percossa da ferite.
Per terra c’era un piccolo specchio spezzato, di quelli foderati di latta che si vendono nelle fiere popolari. C’era pure una piccola stadera ed un fazzoletto sporco. Accanto alla mano destra, un po’ sollevata come per difendersi, c’era un mezzo limone; ai fianchi poi, suprema derisione, vi erano due rametti di fiori di carta che erano stati tolti alla statua della Madonna rinchiusa nella piccola icona che sorgeva nella stanzetta d’entrata. Sul ventre del cadavere era stato posto poi un cesto pieno di fave crude.
I due uomini allora, alla macabra scoperta, uscirono fuori gridando e fu subito un accorrere di parrocchiani che, dato il giorno festivo, affollavano la piazza. Accorsero anche i primi Carabinieri ed i militi guidati del seniore cav. Giuffrida.
Essi fecero sgomberare immediatamente la casa e la piantonarono in attesa delle Autorità Giudiziarie.
Appena la notizia si diffuse nella tranquilla cittadina, un senso di profondo dolore e di triste esasperazione, invase i cuori di tutti. A Mascalucia, la vita si svolgeva calma e serena, scandita dal lavoro assiduo e paziente e dalle buone pratiche dei paesani; un delitto consumato in quel modo ed in quel luogo, certamente doveva colpire molto intensamente. I parrocchiani ne rimasero come intontiti. Ed allora si presentò davanti ai loro occhi la figura del vecchio Vicario, com’era apparsa tutti i giorni, sia che egli usciva di casa per recarsi a dir messa o a compiere le funzioni religiose del vespro, sia che-altro e magro, curvo dagli anni e bianco in volto-si avviava per le strade della cittadina per la passeggiata serale o per i suoi affari privati.
Lo avevano visto tutti, sin dal giorno precedente, entrare per la porta di quella sua casa, da cui non sarebbe più uscito, circondato dai ragazzini che gli chiedevano l’immaginetta sacra e che erano stati con lui in Chiesa, lieti se potevano suonar le campane che chiamavano a raccolta o se il Padre Vicario li incaricava di servirlo nella sagrestia a preparare gli indumenti sacri per i sacerdoti.
Ora egli giaceva a terra, circondato dal suo sangue stesso e tragicamente composto in quella pompa derisoria. Quella casetta ancora calda della sua presenza, dove ogni angolo parlava di lui e dove ogni piccola cosa era stata da lui toccata e sistemata in quel modo, doveva avere assistito ad una scena orribile, resa ancora più triste dall’orgia di sangue brutale a cui gli assassini si erano certamente abbandonati.
Uomini impazziti dal sangue, autentiche belve sanguinarie quelli che gli tolsero la vita, resi folli dal loro gesto che dovettero preparare con molta cura e molta orribile diligenza sul cadavere stesso, dinanzi al quale avrebbero dovuto ritrarsi inorriditi del loro misfatto ma – terribile a dirsi- invece avevano giocato e scherzato sfogando in quel modo, la loro insaziabile ferocia.
Cosa voleva dire quell’apparato di fiori ed oggetti che circondava il cadavere del povero curato? Forse con molta precisione niente, ma nel momento in cui era stato composto acquistava, a mano a mano, valore di simbolo. Gli assassini – compiuto il delitto- dovettero essere stati invasi dall’ebbrezza del sangue. Dinanzi a quel povero cadavere, l’ira bestiale non fu spenta e dovettero essere grida d’infernale gioia, quelle che si sollevarono quando venne esalato l’ultimo rantolo. Fu proprio allora che, suprema derisione, i fiori, sottratti da un posto sacro, circondarono beffardamente il cadavere. E poi quello specchio, posto dinanzi al volto sformato dalla morte, come a farlo mirare. E il limone, simbolo di bile che doveva essere placata, la stadera che simboleggiava la giustizia fatta ed infine il cesto di fave: l’ora della resa dei conti. Che scena infernale!
Questi oggetti dovettero essere posti in quel modo, a mano a mano che-rovistando per altre ragioni nella casa-venivano trovati dagli assassini. E, nel momento in cui, erano posti macabramente attorno al cadavere, assumevano valore di simboli brutali e selvaggi. Queste erano le supposizioni che si alternavano sin dal primo momento nelle bocche dei cittadini di Mascalucia, colpiti dalla dura disgrazia, resa più dolorosa al pensiero che gli infami autori potessero essere loro concittadini! Ma perché tanta ferocia in costoro, perché tanta orribile ira contro il Vicario? Quali conti doveva rendere il Ministro di Dio agli assassini?
Il Vicario Foraneo sacerdote Vito Longo era nato nel 1854 ed aveva dunque 73 anni. Egli era molto amato dai suoi parrocchiani, per le sue qualità non comuni. Figlio di un modesto fabbro ferraio, grazie agli sforzi del padre, aveva potuto farsi innanzi, compiere i suoi studi religiosi nel Seminario di Catania e ottenere la consacrazione. Egli, per il suo ingegno e la sua intraprendenza, ben presto aveva saputo accattivarsi la simpatia, non solo della popolazione, ma anche del clero e, all’età di quarant’anni, era stato elevato a Vicario dalla Curia Arcivescovile. I suoi trent’anni di Vicariato erano pieni di opere che s’impongono alla stima del paese. Difatti egli presiedette a molte opere di beneficienza, innalzò altari e cappelle, e fece eseguire i restauri della Chiesa Madre. Nella sua casa di Mascalucia aveva spesso ospitato il cardinale Francica Nava che lo degnava della sua preclara amicizia. Negli ultimi tempi aveva introdotto nella sua cittadina, un seminario per educare i novizi dei Padri Passionisti, che giravano il mondo a propagandare la parola della fede. Faceva parte del Comitato pro-onoranze alla memoria del cardinale Dusmet, ma godeva della pessima fama di denaroso e tirchio, dato che la sua sostanza si faceva ascendere a più di un milione. Difatti egli possedeva diversi vigneti e giardini e la casa comoda in cui era stato trovato ucciso, recentemente era stata ingrandita. Ora un enigma gravava sulla sua tragica fine. Si trattava di una vendetta o di un semplice assassinio a scopo di furto?
[…] Tutti si domandarono invano le oscure cause del delitto e le ipotesi furono disparate e contrastanti. Si brancolava nel buio e tutti gli indizi erano fuorviati dai simboli che erano stati posti volontariamente e con uno scopo preciso attorno al cadavere del vicario. Lo stesso accanimento mostrato dalle ignote iene faceva supporre un implacabile odio e una sete di vendetta a lungo meditata. Sostenevano queste supposizioni anche la fama di avarizia e litigiosità che l’estinto aveva in paese. Difatti egli aveva molte pendenze giudiziarie ed una lunghissima lite che, malgrado ogni sforzo, non si era potuta ricomporre. Sulla sua scrivania, in mezzo ad altre carte sconvolte, si erano ritrovate alcune carte bruciacchiate e sulle quali potevano ancora scorgersi, segni di numeri e di operazioni aritmetiche, nomi di persone e semplici appunti. Altro documento ritrovato sul mobile e segno dell’attività del Vicario Longo era un’agenda che portava la data del 1927 e nella quale erano state appuntate, con bella ed ordinata grafia, moltissime operazioni bancarie e scadenze di cambiali. Messa in bella vista, c’era poi una busta sulla quale era scritto in carattere minuto: “Lettera di Caff da me stracciata e che potrebbe essere utile” […] Altre supposizioni erano suggerite dal generale sconvolgimento della placida casa. Anche la cappella della Madonna di Lourdes era stata frugata, ma sulla sua cornice bianca listata d’oro, non si era scorta nemmeno una traccia di sangue. Pare che mancassero due bracciali d’oro che la statua aveva. Tutto il resto della casa era stato freddamente, cinicamente frugato, compreso lo sgabuzzino formato dalla prima parte della scala. Il comodino presso il letto era aperto, le casse e le valigie svuotate, le damigiane del vino e dell’olio spezzate dalla furia devastatrice dopo la consumazione del delitto.
Cosa poteva essere accaduto? Qualcuno tentò una timida ricostruzione dei fatti. […] Il reverendo, nella serata di sabato dopo aver impartito la sua benedizione ai fedeli, rincasava verso le ore diciotto, chiudendo dietro di sé la robusta porta d’entrata e rimanendo solo, poiché non teneva nessuna persona a servizio. Non dovette passare certo molto tempo da questo momento fino alla visita degli assassini.
Alla casa si poteva accedere solo da due lati: dalla parte posteriore che si concludeva con un giardinetto, il quale era delimitato da un muricciolo confinante con un vicolo deserto o dalla porta centrale, la più difficile ad essere forzata e la più difficile ad accogliere gente che non sia vista, in quanto prospiciente alla piazza. Si credette che fossero veramente entrati dalla porta robusta d’ingresso, ma dato che la porta non era stata forzata, ciò era un segno che dovette essere aperta dall’interno dallo stesso Vicario. Era abitudine di costui di guardare da uno spioncino, quando si bussava alla sua abitazione, se non riconosceva dalla voce, qualcuno dei diversi visitatori della sua casa. Coloro i quali lo conoscevano intimamente, affermano che era quasi un rituale in lui, in questi casi e dopo aver aperto la porta, l’abitudine di rimettersi immediatamente dietro il tavolo da studio. Gli spruzzi di sangue notati dietro il muro lo dimostravano. Egli si avviava immediatamente alla sua sedia dopo aver aperto la porta e dato adito agli assassini, quando venne colpito improvvisamente alla nuca. Il sangue scricciò con violenza, imbrattando anche tutto il tavolo e le carte che vi si trovavano. Fu questo il colpo mortale?
Certamente no, poiché il sangue aggrumato presso la soglia che immette alla seconda stanza e le impronte delle tre dita di una mano scivolante che si era aggrappata allo stipite, unitamente alla papalina nera ritrovata in quel punto che il Vicario in quel momento indossava, fanno pensare che proprio in quel punto gli assassini lo finirono, mentre egli cercava disperatamente scampo, fuggendo ferito verso le altre stanze. Dopo iniziò tutta la messinscena. Il sangue inebriò gli assassini che cominciarono a sfregiare il povero corpo ed il cadavere venne trasportato nella terza stanza dove fu composto nella maniera suddetta.
Ma questa prima ricostruzione dei fatti si scontrava con alcuni particolari caratteriali del Vicario. Il sacerdote era molto diffidente, non ammetteva nessuno nella sua casa d’abitazione, e ciò da molti anni, dall’epoca in cui era stato vittima di due furti. La prima volta i ladri erano penetrati in casa sua nel 1910 e precisamente la notte di Natale. Poi successivamente, qualche anno dopo, allorché gli furono rubati denari ed oggetti, di cui una buona parte di pertinenza della Chiesa. Dopo questi furti, il Vicario si era fatto molto prudente.
E a questo proposito, egli aveva preso alcune opportune precauzioni. Nell’orticello retrostante la sua casa, vi era una cisterna dove in estate si manteneva l’acqua freschissima. Quando qualche donnetta del vicinato veniva a chiedergliene un boccale, egli la faceva restare ferma dinanzi alla porta, sobbarcandosi all’incomodo di andare personalmente e portare il recipiente pieno alla donna. Per questa sua indole, è assolutamente scontato che il Vicario non abbia aperto a nessuno, tantomeno agli assassini. Ed allora essi, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi, potevano entrare solo dal giardinetto retrostante, in un orario in cui il Vicario non potesse vederli, nascondendosi nella buia saletta intermedia fra la stanza d’ingresso e la retrostanza, dove è situata la porta che dà nel giardino. Questa stanza intermedia di forma rettangolare conteneva un groviglio di masserizie e suppellettili, adatta a celare facilmente uno o più uomini. Al suo rientro, il vicario non si sarebbe accorto di nulla, tanto è vero che egli accese il fuoco per cuocersi un po’ di riso. Si calcola che abbia fatto cena verso le ore venti. Non saranno trascorsi che pochi minuti che gli assassini, usciti dal nascondiglio, si sarebbero fatti avanti come biechi fantasmi truculenti. Il disgraziato si sarà trovato senza dubbio a capo chino, scrivendo o leggendo alla luce dell’unica lampadina elettrica. Non fu mai possibile appurare se fu scambiata qualche parola tra il Vicario ed i delinquenti, ma cosa certa è che il sacerdote fu aggredito brutalmente e con violenza bestiale, mentre era seduto. La morte, a parte il primo colpo non mortale, sarebbe avvenuta quasi immediatamente sotto la furia dei colpi incessanti, senza che il malcapitato potesse emettere un solo grido d’aiuto. Nessuno infatti sentì nulla, anche se a pochi metri dalla casa vi era un Circolo dove a quell’ora dovevano esserci molte persone. Non solo, accostata alla casa del Vicario, vivevano due donne, madre e figlia, che gestivano una rivendita di generi diversi. Nessuno sentì un lamento, un gemito, un rumore oppure qualcuno che si muoveva, all’interno dell’abitazione.
[…] L’autopsia che fu eseguita il giorno dopo nel Cimitero di Mascalucia dai professori Dellavolta e Giuffrida, dette come primo risultato che ben trentadue ferite d’arma da taglio erano state inferte al corpo della vittima. Ferite date senza criterio, all’impazzata, come opera di invasati in preda a belluina ferocia.
Se queste furono le modalità del delitto, fu facile ammettere che esso fosse stato perpetrato da qualcuno che intratteneva rapporti d’interesse con il Vicario. Si diceva che i debitori del Vicario non fossero pochi, anche se, voce concorde, il Vicario non faceva mai parola alcuna sui suoi interessi personali. Neanche con uno dei nipoti, il più benvoluto da lui.
[…] La giustizia procedette a parecchi fermi: fu fermato il sagrestano Tripolone Mario con moglie e figli ed un fratello Antonino Tripolone. Poi anche i fratelli Giuseppe e Nicolò Privitera, semplici conoscenti del Vicario. E poi anche Urzì Angelo e Finocchiaro Salvatore che erano stati notati confabulare con lui negli ultimi tempi. Inoltre, si ritenne di dover tenere isolati i nipoti dell’ucciso, Cantone Arcangelo e Longo Arcangelo.
[…] Si disse di una vendetta in seguito a delle liti civili per dei lasciti a favore della Chiesa e per cui il Vicario Longo si era battuto, sostenendone il diritto come cosa propria. […] Si trattava di una lite mossa dalla Congregazione della Carità, anni orsono contro il Cardinale e contro il sig. Agatino Scalia e figlio prof. Giuseppe, e la nuora sig.ra Gemma Sborni, perché una zia dello Scalia, suor Maria Angela Somma aveva lasciato un’eredità alla Chiesa Madre di Mascalucia. In seguito, però avvenne una transazione tra il Cardinale e lo Scalia che poi fu annullata perché mancava l’approvazione del Governo. La cosa finì che la Chiesa prese possesso di tale eredità consistente in due fondi uno denominato Torre ed uno Munzone.
Si scopri che c’era pure una seconda lite per l’annullamento di una vendita di immobili fatta dal Vicario Longo e di pertinenza della Chiesa. Il Vicario aveva
dato luogo alla suddetta vendita di immobili in qualità di amministratore della Chiesa stessa. Ma la Cassazione decise tempo fa per l’annullamento della vendita ed ora la causa continuava per il rilascio del possesso.
Di fatto, il delitto fu talmente sconcertante che nessuno aveva memoria di tanto cieco orrore.”
GIUSEPPE REINA
EDITOR MASCALUCIA DOC
@MASCALUCIA DOC
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