Storie di Mascalucia - Gennaio 27, 2017
Storie di Mascalucia: “Il campetto”
Ricordo benissimo la prima volta che entrai in Parrocchia, perché la cosa fu piuttosto insolita. Adiacente alla Chiesa, proprio attaccato alla sagrestia, con cui comunicava attraverso una gran porta di legno, c’era un campetto di calcio in terra battuta con di fronte tre gradoni di cemento ed una piccola porticina che dava sul Corso san […]
Di Giuseppe Reina

Ricordo benissimo la prima volta che entrai in Parrocchia, perché la cosa fu piuttosto insolita. Adiacente alla Chiesa, proprio attaccato alla sagrestia, con cui comunicava attraverso una gran porta di legno, c’era un campetto di calcio in terra battuta con di fronte tre gradoni di cemento ed una piccola porticina che dava sul Corso san Vito.
Attirato proprio dal gran vociare e dal rumore delle scarpe che tiravano calci, entrai proprio da quest’ apertura secondaria e mi sedetti sui gradoni. Era un pomeriggio inoltrato, ero solo ed avevo ancora i calzoni corti propri dell’adolescenza e di un’estate che stava iniziandole gambe veramente esili, non più di 6/7 anni.Non ricordo bene il motivo per cui passavo da lì, ma la mia vita stava cambiando. E sia benedetto quel motivo, anche se l’ho dimenticato.
C’era in corso una partitella tra amici. Anzi, definire partitella, quella che era un vero e proprio rodeo in cui tutti ,compagni ed avversari, “assicuravano” un pallone, come le colombe quando gli dai del mangime, sembra un vero e proprio eufemismo. Diciamo che erano più i calci agli stinchi che quelli veramente dati alla palla. Per un fortuito caso della vita, uno dei giocatori dovette lasciare il campo, rendendo dispari una delle due squadre .Non ricordo chi mi fece un cenno di scendere e venire a giocare. Figuriamoci, non me lo feci ripetere la seconda volta. Aspettavo proprio quello.
Mi resi immediatamente conto che i ragazzotti erano tutti più grandi e soprattutto più robusti di me, quindi mi capacitai ben presto che difficilmente avrei potuto competere con loro, senza riportare a casa lividi ,botte e soprattutto interi i miei occhialini da miope di cui mia madre ,disperata per le frequentissime e costose riparazioni, mi pregava tutte le mattine, come si fa con la Madonna nel mese di maggio. Decisi di tenermi fuori dalle mischie caotiche e polverose, in cui un miscuglio di scarpette, calzettoni e suole di cuoio, sollevava grandi nuvole di polvere, tenendomi un po’ in disparte, ma attento qualora il pallone uscisse fuori da questi pacchetti di mischia di stampo rugbistico.
Fu proprio in una di queste fortuite sortite che il pallone schizzò fuori tra le gambe dei giocatori ,collocandosi tra me ed il solo portiere. Feci uno scatto velocissimo e tirai una gran pallonata ad occhi chiusi che superò l’attonito portiere e finì la sua corsa, battendo proprio sulla gran porta della sagrestia, e producendo un grande cigolio di serrature arrugginite. Alzai le mani al cielo e gridai con quanto più fiato avevo nei polmoni : “GOOOOLLLL”. Ci fu un attimo di silenzio. Tutti mi guardarono, forse pensando com’era stato possibile che quel “legnoso” bambino appena entrato fosse riuscito a fare gol, quando da più di un’ora, si stavano legnando di brutto,senza concludere alcunché. Ci fu un attimo interminabile di sguardi tra me e loro, dopodiché tutti si misero a correre dalla mia parte. Mi presero e mi sollevarono e, buttandomi in aria, come un qualsiasi allenatore dopo che ha vinto lo scudetto,ridevano,ridevano,ridevano al grido di “alese”. Fu una bella sensazione, il calcio mi aveva avvicinato a dei nuovi amici, si era creata una fratellanza, una solidarietà. Ero uno di loro. E mi era costato solo un gol. I visi di alcuni mi rimasero impressi ed oggi quando li incontro, ricordo sempre quest’episodio, stampato indelebilmente nei miei ricordi infantili. Erano Vito Guglielmino, Tino Torrisi, Peppe Rapisarda, futuri professionisti e politici “sgassoti” a tempo perso.
Oggi, al posto del polveroso campetto esiste la sala parrocchiale del Circolo Bob Kennedy, nome voluto fortemente da “Patri Nicola”, forse in ossequio ad un ideale di libertà e di lotta al razzismo, tanto sentito in quegli anni. Ma la vita del campetto NON finiva lì. Su decisione del Don, il campetto continuò la sua interminabile vita, proprio sopra il circolo Kennedy, laddove si issarono dei pali, si collocarono delle gran reti di metallo, per impedire che il pallone cadesse su corso san Vito ad ogni tiro e si continuò a giocare lì per tanto e tanto tempo ancora. Chi è passato da lì, ricorda che proprio a metà del campo, sulla destra c’era una sporgenza di cemento, incatramata di sopra, su cui si era soliti riporre giacche di tuta e pantaloni, prima di iniziare a giocare. I più attenti di Voi, ricorderanno che uno degli angoli di questa sporgenza era rotto, quasi fosse stato martellato da qualcuno. Fui testimone oculare di come ciò fosse stato possibile .
In una di queste sanguinosissime partite di calcio che si svolgevano giornalmente e che duravano dall’alba al tramonto, scordandosi di affetti, cibo e quant’altro, partecipava un tal Donatello Salvato che tanti ricorderanno come il più scorbutico, scorretto, “zzauddo” giocatore di calcio che mai abbia calpestato il campetto. Donatello, nonostante l’età adolescenziale, era tra i più sviluppati fisicamente della nostra generazione ed era un bulletto mica male. Litigioso,insultante,manesco,sputacchiere e giocatore di calcio da cui tenersi a debita distanza, in quanto aveva un tiro talmente forte da fare male e una cattiveria agonistica che sfociava il 100% delle volte in rissa, in cui lui era espertissimo elargitore di botte da orbi.
Accade che mentre si giocava, vediamo Donatello grondare di sangue dalla testa. Qualcuno scappa a chiamare il parroco, altri cercano di tamponarlo alle bell’è meglio. Lui imperterrito, vuole continuare a giocare, gliene frega poco del sangue che gli scende dalla fronte, anzi fa il diavolo a quattro. Cerchiamo di calmarlo (come fai a calmare un toro di quelle dimensioni che sbuffa dal naso?),cercando di fargli capire come sia stato possibile che ha un taglio alla testa, quando nessuno di noi, lo ha mai toccato. Qualcuno vede il muro rotto e l’angolo della sporgenza a terra. Spiegato l’arcano. “L’uvvullu” Donatello, nella foga del calcio a testa bassa, non si era nemmeno reso conto di aver urtato quella sporgenza che, non era mica di gomma ma di cemento, rompendola di brutto. Morale della favola: 5 punti di sutura e Donatello che, il giorno dopo, era ancora in campo, come se nulla fosse successo. Anzi mostrava orgoglioso i suoi 5 punti di virilità al grido di “..mancu i sintii, quannu mi cuseru”. Altri tempi.
Immaginate ora uno dei nostri figli a cui fosse successo una roba simile? Madri e padri che chiedono spiegazioni, denunce, inchieste, ricerca di colpevoli, carabinieri e chi più ne ha, più’ ne metta. Mitico campetto : hai forgiato uomini non donnicciole !
G.R.
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