Storie di Mascalucia - Gennaio 27, 2017
Storie di Mascalucia: “Patri Nicola”
“Patri Nicola” non era soltanto un semplice sacerdote di paese. Era molto di più. E soprattutto era avanti, molto avanti. Proiettato oltre quegli anni ’50/’60 che erano stati testimoni del suo insediamento come parroco di Mascalucia, una realtà paesana non molto dissimile da quel Mezzogiorno ancora sgangherato dal dopoguerra e lontano dai bagliori di quel boom economico […]
Di Giuseppe Reina

“Patri Nicola” non era soltanto un semplice sacerdote di paese. Era molto di più. E soprattutto era avanti, molto avanti. Proiettato oltre quegli anni ’50/’60 che erano stati testimoni del suo insediamento come parroco di Mascalucia, una realtà paesana non molto dissimile da quel Mezzogiorno ancora sgangherato dal dopoguerra e lontano dai bagliori di quel boom economico che si respirava in altre parti d’Italia.
Ma la sua mente era nuova ,moderna, aperta ai giovani ed a favore dei giovani. Aveva le idee chiare, i suoi progetti erano visionari, costosi, inarrivabili, ma lui li perseguiva lo stesso, dicendo che il “il buon Dio e San Vito l’avrebbero aiutato”. E quando arrivava l’attimo in cui tutto sembrava vanificato ed incompiuto, quasi per miracolo divino, si presentava qualcuno con un bello assegnane in mano, a coprire i debiti contratti dall’avventuroso Nicola. Che, da par suo, si “scotolava” la tonaca nera, si faceva il segno della croce e ringraziava San Vito. E’ certo che non tenne mai nulla per sé ,non solo perché la sua funzione glielo impediva, ma per carattere ed onestà piena in quanto si considerava servitore completo della Parrocchia, scopo a cui dedicava vita, tempo e diciamolo pure, anche qualcosa di tasca propria. In quanto tale, i suoi ingegnosi colpi di genio erano tutti rivolti a migliorare esteticamente la Chiesa di san Vito, renderla bella ed accogliente come una casa domestica, affinché la gente potesse sentirsi veramente a casa propria. O meglio a casa di Dio, o meglio ancora di San Vito.
Penso che il buon Nicola, per brevità lo chiamerò da ora in poi “il Don”, avvertisse una certa rivalità con il prete della vicina Chiesa, di per sé sfarzosa e lussuosa ed inconsapevolmente, fosse entrato in una sorta di circolo vizioso competitivo per abbellire la casa di san Vito come di dovere, e farla diventare perlomeno pari per estetica, riducendo così il notevole gap esistente.
I Matricoli d’altronde, nulla facevano per non far pesare le differenze sostanziali tra le due Chiese, divenute con il tempo, simboli immobili di contrade che si contrapponevano. Da una parte, il giusto orgoglio di essere una Matrice dedicata alla Madonna e di detenere il primato cittadino di “miglior casa di Dio del paese”, dall’altra le giuste rivendicazione dei Sancitoti che asserivano di essere i primi, in quanto San Vito era il patrono del paese e quindi…! E quindi, nulla. Una rivalità basata sul nulla, su un campanilismo più di facciata che di sostanza. Un Camillo/Don Peppone con le dovute varianti, in cui non esistevano vincitori o vinti, ma solo un “guardarsi in cagnesco” con tutta la più sana benevolenza paesana. Di fatto, le due Chiese poste l’una di fronte all’altra al limitare della parte storica della Via Etnea, quasi si fronteggiavano come guerrieri d’altri tempi, esplicitando in maniera artistica, questo concetto di antitesi parrocchiale.
Gli aneddoti sui presunti sguardi torvi tra il “Don” ed il “Pasqua” si sprecavano, ma erano quasi tutte leggende metropolitane ingigantite dalle comari di paese e dal “cuttighiu” più spregevole, in quanto i due parroci, pur senza dirselo mai, sotto sotto si stimavano e rispettavano. Almeno questa era stata sempre la mia impressione.
Il “Don” non era molto alto di statura, faccia rotonda con occhialini da professore, un’espressione serena di chi non capisci mai se stia sorridendo e scherzando oppure è “meglio lasciar perdere”. Era il classico “buon padre di famiglia “o meglio il “buon prete di campagna” che accudiva alle sue pecorelle smarrite con fare mite ma fermo nello stesso tempo. Penso che la mancata paternità, giocoforza incompatibile con il suo ruolo ecclesiale, si esprimesse in un desiderio enorme di circondarsi di giovani, di aiutarli nelle loro vicende umane, di incanalarli verso una moralità basata su pochi e semplici concetti: la famiglia, la parrocchia, l’amicizia, il reciproco rispetto. Ed a suo modo, soprattutto. Un “modus operandi” del tutto sui generis ed informale, ma segno della sua grande umiltà e saggezza. Per avere la gente dalla tua parte, devi provenire proprio da quel ceto sociale, devi aver capito e fatto tesoro di quelle che sono le esigenze delle persone, devi metterti al loro stesso livello di comunicazione, devi compenetrarti con i loro problemi. Lui era un maestro di “savoir fare”. Ecco perché era amato e benvoluto e considerato uno di casa, un fratello più grande, tanto che le parrocchiane più avanti con l’età, non disdegnavano di cucinare e regalargli qualche buon piatto succulento della tradizione mascaluciota .
Nicola non desiderava ingerenze altrui però, nella sua personalissima gestione della Parrocchia e, Dio sa, quanto avesse ragione. Infatti tra perpetue, fanatiche , comitati promotori e sobillatori di popolo, le teste calde non mancavano mica, pronte alla critica magari malevola nei confronti del “Don”. Che dal canto suo, proseguiva imperterrito, a dispetto di tutto e di tutti, talora anche disubbidendo alle superiori autorità ecclesiastiche. “E che caspita, mica si deve chiedere un’autorizzazione scritta anche per appendere un quadro in Chiesa”. Lo sentii lamentarsi una volta.
Di carattere socievole, abituato a fare sempre di testa propria, con quella cocciutaggine proprio del mascalucioto verace (anche se non lo era!),sintesi perfetta di grande intelligenza umana ma soprattutto di vera praticità paesana. Era l’architetto delle emozioni, da quelle più pratiche come i rifacimenti estetici della Chiesa di San Vito che, durante la sua amministrazione, si trasforma da lazzaretto buio e decadente in una splendida Chiesa ariosa e piana di luce, a quelli più prosaicamente pratici di gestione delle “risorse umane”. Ebbene si, quelle risorse umane eravamo noi, i ragazzi della Parrocchia. Lui si giocava tutto sui giovani: la sua credibilità, la sua iperbolica voglia di avvicinarli alla fede, la sua smania di tenerli avvinti intorno a quella Chiesa fatta non solo di fede, ma di mura trasudanti di emozioni giovanili, di semplicità genuine, di giochi, risate ma invero di pianti, sguardi ,mani che s’incrociano, di amori che nascono e che muoiono nel breve giro di roventi estati vacanziere.
Nicola fa finta di non vedere, ma sa,avvalla,si gira dall’altra parte, non vuole essere di peso. Sa che la gioventù non può e non deve essere circoscritta con tutta la sua veemente forza d’impeto. Anzi favorisce. E con modalità inconsuete per l’epoca. Ecco la Messa Beat, il coro quasi gospel, le tombolate in sagrestia, le gite a mare o sull’Etna, la squadra di calcio. Tutti momenti di socializzazione piena tra ragazzi e ragazze che, pur non avendo auto e cellulari a disposizione, vedevano nel Don, uno motivo di fuga da quella noiosa ed oppressiva realtà paesana, costruita su un finto perbenismo e su un bigotto modo di sentire.
Ma questo è solo l’inizio della storia.
G.R.
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