Cultura - Agosto 9, 2019
LA FORZA DELLA VOLONTA’ Autobiografia di Vincenzo Zappalà (Capitolo 1° Il Periodo siciliano)
Pubblichiamo per gentile concessione dell’avv. Vincenzo Zappalà, il primo capitolo della sua autobiografia. Lo ringraziamo di tutto cuore e siamo onorati di ospitare nel nostro sito una tale testimonianza storica. Buona lettura! Sono nato nel 1942 a Mascalucia, un paesino che nel 1942 contava circa tremila anime, situato a 700 metri sulle falde dell’Etna, a […]
Di Giulio Pappa

Pubblichiamo per gentile concessione dell’avv. Vincenzo Zappalà, il primo capitolo della sua autobiografia. Lo ringraziamo di tutto cuore e siamo onorati di ospitare nel nostro sito una tale testimonianza storica. Buona lettura!

Sono nato nel 1942 a Mascalucia, un paesino che nel 1942 contava circa tremila anime, situato a 700 metri sulle falde dell’Etna, a circa 9 chilometri da Catania.
Del paese natio ho pochi ricordi indelebili: le case basse, fatte di blocchi di pietra lavica intervallati da un impasto rosato di calce e terra rossa dell’Etna, le inferriate in stile spagnolo, le chiese in stile normanno e barocco, i coloratissimi carretti siciliani, le feste patronali con la processione e la banda, le baracche dei giorni di festa che vendevano profumatissime acciughe, arachidi, carrube, luppolo, ceci arrostiti (calia).
Ricordo l’odore dello zolfo dei fuochi d’artificio, le strade con due corsie di pietra lavica, dove correvano le ruote dei carretti, i vigneti bassi, i fichi ed i fichi d’india che crescevano ovunque.
Ho ancora memoria dei limoneti e degli aranceti, delle scogliere di lava di Aci Trezza e di Aci Castello, della spiaggia sabbiosa di Ognina (Catania) denominata “plaja” e ricca di mitili.
Ricordo il pellegrinaggio che si faceva ogni anno alla chiesetta della
“Madonna della sciara” (Madonna di Mompilieri), fuori paese.
Sono sposato dal 1964, ho vissuto a Trieste con i miei genitori e mia sorella
dal 1950 al 1962, poi a Milano, Lecco e Palmanova, in provincia di Udine. Dal
1968 vivo a Udine, con mia moglie.
Ho lavorato per 35 anni e mezzo, prima in Ferrovia e poi all’INPS di Udine.
Mi sono iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Trieste all’età di 31
anni.
Mi sono laureato a 35, mentre lavoravo all’INPS di Udine, poi ho conseguito
l’abilitazione a procuratore legale e quella all’insegnamento del diritto.
Per oltre venti anni ho fatto il Giudice Tributario, prima in sede
provinciale, poi regionale.
Contemporaneamente ho lavorato all’INPS per raggiungere il diritto alla
pensione.
Nel 1997 sono stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica
Italiana.
Dal 1998 sono in pensione e dal 1999 al 2015 ho
ricoperto il ruolo di Giudice di Pace nel Comune di Gemona del Friuli, in
provincia di Udine, nella circoscrizione del Tribunale di Udine.
Quest’attività mi ha gratificato al
100% e mi ha dato tutte le soddisfazioni che mi sono state negate da un destino
avverso!
Certo che, quando ho lasciato la Sicilia, non avrei
mai potuto immaginare di andare a fare il Giudice di Pace quasi al confine
dell’Italia settentrionale!
Ho molti interessi ed un grande hobby: il “bricolage”.
In particolare, amo aggiustare tutto ciò che è possibile, riciclando tutti i
materiali di cui dispongo e per questo possiedo attrezzi di tutti i tipi e
raccolgo tutto ciò che può servire per coltivare il mio hobby.
La mia maniacale raccolta di roba da riciclare mi ha portato ad essere sommerso
dai materiali più vari, fino quasi a non potermene più liberare.
Fra i tanti interessi scientifici, mi appassionano: l’astronomia, l’ufologia,
la fisica, la meccanica, la chimica, l’elettromeccanica.
Le mie uniche letture, al di fuori di quelle di carattere giuridico (che sono
il mio pane quotidiano), riguardano temi scientifici e temi ufologici. Credo
fermamente che non siamo soli nell’universo e spero che un giorno, prima di morire,
ne avrò la conferma.
Mia madre Stella Zappalà (cognome di nascita), è deceduta l’8 gennaio 2009,
all’età di quasi 95 anni, era vedova e viveva a Trieste. Era nata a Nicolosi,
un paesino sito sull’Etna, qualche chilometro più a su di Mascalucia. Rimase
orfana di madre a quattro anni, suo padre si risposò e lei dovette convivere
con una matrigna, che la sottopose a maltrattamenti che le lasciarono un
profondo shock infantile.
Visse poi in una povera ma dignitosa casetta di proprietà del nonno materno, Salvatore Rapisarda.
Dopo aver fatto il sagrestano, il nonno aprì un salone di barbiere in via Etnea, dopo la Chiesa Madre.
Ricordo che la casa del nonno, in cui nacqui, aveva sul davanti un piccolo cortile arricchito con un albero di fichi, uno di arance ed uno di limoni e nel retro l’immancabile cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, bene prezioso in Sicilia.
Mia madre si adattò a tutti i lavori: ad esempio guadagnare una lira ogni
quattro chili di mandorle sgusciate.
Durante la sua adolescenza mia madre accudì amorevolmente il nonno Salvatore e
si trovò dodicenne a dover crescere un nipotino (Turi) affidatole dalla
sorella Mimì.
La zia Mimì era rimasta incinta senza sposarsi: erano gli anni venti ed una ragazza madre rappresentava un grave scandalo in un paesino del Sud, perciò preferì emigrare in Argentina.
Recentemente ho rintracciato a Buenos Aires una figlia di Mimì, mia cugina Carmen, con cui ho avuto contatti epistolari prima del suo decesso avvenuto nel 2010, mi sembra. Altri cugini risiedono in Lombardia, mentre i pochi parenti residenti in Sicilia sono morti o non sono più in contatto con me.
COME SI CONOBBERO I MIEI GENITORI.
All’età di ventuno anni mia madre conobbe Antonio Zappalà, un giovane di
Mascalucia che lavorava come garzone nella bottega di falegname di suo cugino.
Lei passava davanti alla bottega e Antonio, fra una piallata e l’altra, le
lanciava sguardi infuocati.
Prima di partire per la leva, Antonio le scrisse un’appassionata lettera in cui le dichiarava il suo amore. Seguirono altre lettere, che Antonio le scrisse durante il periodo di servizio militare, sui fogli distribuiti dall’esercito, pieni di scritte inneggianti al fascismo e di avvertenze per evitare di fornire notizie allo spionaggio nemico. Mia madre le ha conservate gelosamente!
Il padre di Antonio si fece più volte a piedi il tragitto di circa 9 Km. da Mascalucia a Catania per presentare la domanda di esonero per il figlio unico. Dopo sei mesi di viaggi e di carte, Antonio ottenne il congedo.
Al ritorno dalla leva, decisero di sposarsi. A quel tempo i matrimoni si celebravano anche in maniera privata senza invitati, dopo una “fuitina”.In pratica dopo una fuga, che serviva per mettere i genitori di fronte al fatto compiuto e quindi per indurli ad accettare il c.d. “matrimonio riparatore” o, più semplicemente, per evitare tutte le spese di una cerimonia ufficiale con invitati. Mio padre e mia madre scelsero la “fuitina” perché mancavano i soldi per una
cerimonia ufficiale. Il giorno stabilito (era il 26 dicembre 1937), all’ora stabilita, Stella si attardò come per caso nel cortile, aspettando un fischio con il quale Antonio l’avrebbe avvertita che l’automobile era pronta per la fuga.
Così fuggirono mentre il nonno, ignaro dell’accaduto, la chiamava a gran voce dall’interno della casa, per farla rientrare.
Si sposarono il 5 febbraio 1938.
Il primo figlio Gaetano (Nuccio), nato il 28 ottobre 1938, è deceduto il 12 febbraio del 1943. Io (Enzo) sono il secondo figlio. Dopo di me ci fu un aborto di tre mesi. Sei anni dopo di me, nel 1948, nacque mia sorella Concetta (Tina), che vive tuttora a Trieste, è sposata ed ha una figlia, nata nel 1976.
Mio padre, nato nel 1915, è deceduto il 6 settembre 1984 a Trieste, dove siamo emigrati nel 1950.
Mia sorella nacque anch’essa a Mascalucia, nella casa del nonno. Io avevo 6 anni e rimasi fuori della porta, mentre la levatrice l’aiutava a venire al mondo.
Nuccio aveva meno di due anni quando mio padre fu richiamato militare e fu inviato a Trieste a seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale (6 giugno 1940). Qui cominciò per mia madre una lunga serie di sofferenze. Mia madre non sapeva se Antonio fosse ancora vivo, perché vi erano enormi difficoltà di comunicazione con il Nord-Italia.
Doveva sopravvivere con il nonno e due bambini senza alcun mezzo di
sostentamento.
A quel tempo era distribuita la famosa “tessera del pane”, che il regime
fascista assicurava ai poveri. Con la tessera si aveva diritto giornalmente a
200 grammi di pane e 200 grammi di pasta a testa.
Per sopravvivere, mia madre si adattò a tutti i lavori possibili.
Si recava a piedi fino a Gravina, un paese sulla Via Etnea poco distante da
Catania, per acquistare il pane che poi rivendeva lucrando qualche lira. Poi
affittò la casa del nonno ad una famiglia di persone sfollate da Catania, dove
imperversavano i bombardamenti degli alleati, quindi andò a vivere con il suocero,
ma la convivenza fu difficile e perciò si spostò in una piccola camera presa
in affitto, sempre con Nuccio ed il nonno. Più tardi ritornò in possesso
della casa del nonno, dove nacqui io, probabilmente imbastito durante una
licenza di mio padre.
LA MIA NASCITA.
La mia nascita fu piuttosto traumatica. Mio padre era ancora militare a Trieste. Saputo dell’imminente parto, con mille difficoltà (giacché il paese era in guerra) aveva ottenuto una licenza per assistere alla mia nascita, ed aveva attraversato tutta la penisola, ma io tardavo a presentarmi in questo mondo.
Forse già sapevo quali peripezie mi
stavano aspettando! Mio padre dovette pertanto chiedere una proroga della
licenza.
Allora si nasceva in casa, fra mille rischi, con l’aiuto della levatrice. Il
momento della mia nascita sembrava giunto e la levatrice, constatata la
difficoltà di un parto spontaneo, disse che ci voleva un chirurgo. Mio padre
si portò le mani alla testa in segno di disperazione esclamando: ”E adesso
come faccio?”. La sua disperazione era dettata dalla consapevolezza delle
difficoltà di collegamento con Catania, infatti, a quel tempo erano poche le
famiglie che possedevano un telefono o un’autovettura e poi c’era la guerra,
con tutte le difficoltà che essa creava.
In quel preciso istante una nuova doglia squassò il ventre di mia madre ed
io affiorai alla vita.
Erano le 11 del mattino del 4 aprile 1942, un sabato vigilia di Pasqua e le
campane della vicina Chiesa (la c.d. “Chiesa Madre”) ripresero a suonare dopo
tre giorni di silenzio, imposto dalla passione di Cristo, secondo la Liturgia cattolica. L’usanza
locale era quella di legare i batacchi delle campane il giovedì Santo per poi
slegarli alla vigilia di Pasqua, quando le campane venivano nuovamente fatte
suonare a distesa, per festeggiare la Resurrezione.
Questa strana coincidenza fece dire alla levatrice: “Stella questo è un miracolo”. Mia madre commentò: “Allora questo figlio diventerà qualcuno”. Queste parole rimasero impresse nella mente di mia madre: in seguito lei me le ripeté più volte. Non so se questa fu la molla che mi spinse all’auto-affermazione o se invece devo la mia affermazione alla volontà forgiata dalle mille difficoltà, dalle privazioni, dai sacrifici che la mia famiglia dovette attraversare negli anni della guerra e del dopo-guerra. Forse la consapevolezza di essere passato in mezzo a tali prove mi ha dato la fiducia in me stesso e la forza necessaria per superarne altre.
Dopo circa 10 mesi dalla mia nascita, Nuccio si ammalò improvvisamente.
LA MORTE DI MIO FRATELLO NUCCIO.
Nuccio era un bel bambino di 4 anni, intelligente e molto affettuoso. In precedenza era caduto dalle braccia del cuginetto Turi, che lo aveva riportato a casa svenuto.
Non si sa se batté il capo per terra e se quest’evento traumatico avesse
scatenato un focolaio d’infezione.
Fatto sta che mio fratello manifestava gravi sintomi, quale febbre alta e
dolori fortissimi alla testa.
Mia madre chiamò un medico del paese, che diagnosticò il tifo. In quel
periodo erano molte le persone che si ammalavano di tifo.
Non furono eseguite analisi. I rimedi erano empirici. Il bambino si aggravava
sempre di più, delirava, aveva la febbre altissima, dolori lancinanti,
rigidità alla nuca e vomito.
Una famiglia di sfollati da Catania, che abitava vicino a noi, impietosita per le condizioni del bambino, fece intervenire un primario di Catania che diagnosticò una “meningite”, una brutta infezione delle meningi, che porta rapidamente alla morte, se non curata in tempo. I sintomi erano simili a quelli del tifo, ma un bravo medico sarebbe dovuto accorgersi della malattia. Purtroppo mio fratello non fu seguito attentamente, anche perché mancavano i soldi per pagare le visite mediche. L’unica medicina allora sperimentata era la penicillina, ma era poco efficace e poi era troppo tardi per lo stadio raggiunto dalla malattia.
Fu chiesto l’aiuto della locale Stazione dei Carabinieri, che in qualche
maniera riuscirono a rintracciare mio padre, che ottenne una nuova licenza per
ritornare in paese.
Era il febbraio del 1943, la guerra aveva ormai infiammato tutta l’Europa, gli
alleati anglo-americani sbarcarono in Sicilia il 10 luglio 1943 per sferrare
l’attacco definitivo al nazi-fascismo.
L’Italia era ancora alleata con la Germania, con cui aveva stretto il
famigerato asse Roma-Berlino.
Da lì a poco Badoglio avrebbe rotto l’alleanza con la Germania, l’esercito
italiano si sarebbe sciolto (8 settembre 1943) e gli italiani sarebbero rimasti
in balia dei tedeschi, fino alla liberazione.
Mio fratello, che già era in uno stato di pre-coma per i fortissimi dolori alla testa e la febbre altissima, si risvegliò per pochi minuti. Pur essendo divenuto cieco, Tanino riconobbe “a tastoni” il papà, prese dalle sue mani la cioccolata che lui gli offriva e morì nelle sue braccia. L’agonia era stata straziante. Esalando l’ultimo respiro, Nuccio pronunciò la parola ma….mma!
Lo strazio che visse mia madre, già provata dal fatto di essere una povera orfana in balìa della guerra e con tre persone a carico, fu terribile: tentò il suicidio, cadde in un temporaneo stato di pazzia, che in qualche modo riaffiorava periodicamente.
La sua vita girava come un disco
rotto: ripeteva sempre lo stesso dramma, si avvitava sul
suo dolore.
La morte aleggiava su di noi e noi convivevamo con lei, senza riuscire a
dimenticarla un solo momento!
Certo è che la mia infanzia fu accompagnata da quell’evento terribile e dalle conseguenze indelebili che esso determinò nella psiche di mia madre.
LA MORTE DEL NONNO.
Poco dopo, il 14 giugno 1945, morì anche il nonno, di cui conservo un vago
ricordo perché avevo tre anni.
In quest’ambiente crescevo fino a sei-sette anni a Mascalucia, dove frequentavo
l’asilo.
LA MIA INFANZIA IN SICILIA.
Nel settembre del 1947 fui iscritto alla prima elementare all’età di cinque anni e mezzo, perché nato in aprile. Frequentai le prime tre classi elementari a Mascalucia, dove sostenni l’esame d’ammissione alla quarta elementare.
Dopo la perdita di Nuccio, mia madre si attaccò a me in modo morboso: aveva paura che mi ammalassi, che mi facessi male, che mi succedesse qualcosa. Non mi lasciava giocare in strada come tutti gli altri bambini del paese. In effetti, ero piuttosto gracile e soggetto a frequenti bronchiti e tonsilliti. Conservo il ricordo di un episodio indicativo della mia infanzia in Sicilia, che testimonia la mia precoce passione per il “fai da te”.
Avevo circa quattro anni e mi trovavo a letto per un’ennesima febbre, mentre mia madre era uscita di casa, probabilmente per fare la spesa. Ad un certo punto provai ad accendere la luce con l’interruttore che penzolava sul muro, alla testata del letto. I due fili dell’interruttore erano collegati all’impianto elettrico con del nastro isolante, che si era parzialmente staccato.
Così uno dei due fili si slacciò a causa della trazione da me esercitata. Non mi persi d’animo, anzi tentai di riallacciare il filo staccato, prendendo la scossa. Fortuna volle che mi trovassi isolato da terra e che la tensione era allora di 110 Volts. Se fosse stata di 220 Volts, ci avrei lasciato la pelle! L’eccessiva ansia protettiva di mia madre mi portò a trascorrere la mia infanzia in casa, giocando da solo, senza potermi confrontare con gli altri bambini.
D’altra parte io ero un diverso perché cresciuto nella bambagia, sempre pulito e ben vestito, mentre i miei coetanei erano sporchi e pieni di mosche.
Negli anni 40 la strada era formata da due corsie di pietra lavica percorse
dai carretti trainati dagli asini e da un grosso ciottolato. Non si usava
l’asfalto.
Ricordo due episodi salienti della mia infanzia, che testimoniano la mia
difficoltà nei rapporti sociali.
Una volta uscii nella via, dove abitavo e vidi dei ragazzi della mia età che tiravano sassi verso una finestra. Memore degli insegnamenti ricevuti, mi azzardai a rimproverarli, ricevendo in compenso una sonora lezione a pugni e calci.
In un’altra occasione, mentre stavo provando il monopattino che mio padre mi aveva fatto con le sue mani, fui oggetto degli scherni di alcuni ragazzi. Non mi resi conto che erano mossi da invidia e reagii tirando un sasso alla testa di uno di essi.
Naturalmente mio padre dovette correre ai ripari e poi mi rimproverò.
Ricordo che un giovane vicino di casa, Cataldo De Francisci mi difese dalle molestie di alcuni miei coetanei piuttosto scapestrati. Io
gliene fui immensamente grato. Purtroppo, da allora non l’ho più rivisto.
La vicinanza della famiglia sfollata da Catania ci fu d’aiuto in quegli anni. Erano quattro donne: la madre Giuseppina, legata sentimentalmente a quel primario di Catania che era intervenuto in extremis al capezzale di Nuccio e le figlie Francesca (Ciccina), Jole e Lucia.
Ricordo che la “nonna” Giuseppina soffriva d’asma e per calmare le crisi respiratorie, usava una miscela d’erbe aromatiche. Le erbe erano mescolate con una polvere infiammabile, erano poste in un piccolo braciere e la miscela era accesa con un fiammifero. La lenta combustione produceva un fumo aromatico che era aspirato dal malato d’asma per lenire le crisi respiratorie. Anch’io mi divertivo a preparare la miscela per l’asma della nonna Giuseppina.
Tutta la famiglia ci offrì assistenza, come succede di solito nei periodi di miseria, quando gli eventi costringono tutti a sacrifici e privazioni, mentre non succede nei periodi di opulenza, come quelli in cui viviamo oggi, dove prevalgono l’egoismo e l’indifferenza!
Jole e le sue sorelle Lucia e Francesca (Ciccina) erano state educate come si usava nelle famiglie benestanti: avevano una buona cultura, sapevano lavare, stirare, cucire, ricamare, cucinare, cantare e suonare il pianoforte. Ciccina era una gran lavoratrice e badava ai bisogni di tutte.
Era molto timida e forse per questo non si sposò.
Lucia era profondamente sognatrice: sognava i fasti delle famiglie nobili con
cui suo padre aveva rapporti d’amicizia, ma il padre era a Catania e si faceva
vedere di rado. Quando arrivava in paese con la macchina di lusso e l’autista
era come se arrivasse un ministro.
Lucia si era segretamente innamorata di Pippo, un giovane rampante del paese,
con cui scambiava mio tramite dei biglietti amorosi. Pippo divenne poi mio
padrino di cresima e mi regalò un orologio che conservo ancora gelosamente. A
proposito di Pippo, ricordo un episodio piuttosto strano. All’esame
d’ammissione alla quarta elementare trovai molta difficoltà a svolgere il tema
(mi sembra fosse quello d’italiano). Tutti gli altri alunni avevano già
consegnato il loro elaborato, ma io non riuscivo a concludere nulla. Il maestro
mi lasciò da solo in aula alle prese con il tema e mi disse che potevo fare
con calma e poi dovevo infilare il foglio con il mio tema nel cassetto della
sua scrivania.
Non so se in quell’occasione vi fu lo zampino del mio padrino Pippo, ma so
che lui abitava nei pressi della scuola e, ad un certo punto, mi aiutò a
finire l’elaborato.
Così fui promosso alla quarta elementare.
Jole (Jolanda), in particolare, ha rappresentato un capitolo molto importante nella mia vita. Era la più attiva ed aveva un innato amore per il bricolage: s’ingegnava a fare di tutto, dai lavori di manutenzione, ai dolci, alla tostatura dell’orzo. Sapeva fare le iniezioni, curare molte malattie, conosceva i medicinali, le erbe, le piante ed era anche una provetta sarta. Non disdegnava di fare lavori da muratore o da calzolaio, confezionava dei deliziosi cappellini, dopo aver visto un modello in vetrina. Conservo ancora la ricetta dei cannoli siciliani scritta di suo pugno.
Mia madre s’ingegnava anch’essa in tutte le maniere. Ricordo ancora i
pentoloni in cui mescolava l’olio di sansa con la soda caustica, ottenendo una
miscela che, una volta consolidata, ritagliava a forma di sapone.
Ricordo la carbonella fatta in casa per accendere il forno in cui si faceva
cuocere il pane; il meticoloso lavoro per fare i cannoli e le focacce; le
passate di pomodoro salate e messe ad asciugare al sole sulle tegole del tetto,
per ottenere la conserva.
Ricordo le marmellate di frutta fatte in casa (la cotognata); le granite fatte
con mandorle macinate sciolte nell’acqua in un sacchetto di tela.
Ricordo la raccolta e la torchiatura delle olive, la raccolta dei fichi d’India, la vendemmia, le salsicce fatte in casa, i cesti di canne intrecciati a mano, gli zoccoli di legno rinforzati con borchie di ferro perché non si consumassero le suole.
Erano tutte attività che sviluppavano l’ingegno e l’inventiva. A Carnevale si confezionavano in casa gli abiti per vestirsi in maschera: ho ancora una foto che mi ritrae in un delizioso costume di cavaliere del settecento, completo in tutti i particolari, confezionatomi da Jole.
La mascherata si svolgeva nella piazza antistante alla chiesa, al suon della “raspa” un ballo in voga in quei tempi.
Per la festa di San Vito, patrono del paese, si confezionavano i fuochi d’artificio in maniera artigianale. Dal campanile della chiesa di San Vito venivano “sparate” con i fuochi d’artificio delle fettucce di carta colorata e noi bambini ci affannavamo a raccoglierne mazzi per conservarli come trofei: allora ci si accontentava di poco.
Anche i giochi erano pochi e poveri: aquiloni costruiti con carta velina, canna e colla di farina, cerchioni di bicicletta fatti rotolare spingendoli con un bastoncino, figurine colorate ecc.
Queste intense attività manuali e casalinghe stimolarono il mio interesse per la merceologia, per i materiali da costruzione in genere, tanto che fin da bambino mi adattai a fare qualsiasi lavoro necessario in casa: falegnameria, elettricità, meccanica, calzoleria ecc. ecc. Non solo: Jole aveva una cultura eclettica, che spaziava dalla Divina Commedia, all’astronomia e questo mi stimolò ad apprezzare la prosa, la poesia, le scienze in genere. Si dilettava a suonare il pianoforte ed il banjo.
Con il suo aiuto mi appassionai anche alla matematica ed alla geometria.
Devo riconoscere che anche mia madre ha esercitato un forte influsso sulle mie
passioni: come lei amo la natura, la musica, la matematica, la giustizia.
Credo che il mio amore per la Giustizia dipenda anche da Jole.
Infatti, quando avevo quattro-cinque anni, se mi chiedeva “cosa vuoi fare da grande?”, rispondevo: “l’avvocato”.
Era un sogno di bambino e si è avverato: oggi sono avvocato, anche se non esercito la professione.
La mia passione per il diritto mi ha fatto prendere anche l’abilitazione all’insegnamento del diritto nelle scuole medie superiori. Tuttavia, pur essendosi presentate più occasioni, ho rinunciato all’insegnamento, perché ho una visione troppo conservatrice per la società attuale e sicuramente mi sarei trovato a mal partito, con ragazzi viziati e privi di regole e genitori pronti a difenderli a tutti i costi.
Avevo assistito ai movimenti del ’68 ed avevo capito che vi era stata una rivoluzione ispirata dall’anarchia!
Chi ha avuto un’esperienza di vita come la mia non può certo condividere il “modus vivendi” attuale, anche se è costretto a subirlo!
Vincenzo Zappalà
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